Ormai è evidente: i contenuti digitali dedicati alla cucina, dai talent show agli approfondimenti social, attirano milioni di visualizzazioni e interazioni. La cucina è diventata spettacolo, cultura pop e trend. E questo dovrebbe farci ben sperare.
Soprattutto quando chi conduce questi programmi è una figura competente, capace di fare vera cultura enogastronomica. Si parla sempre più di qualità della materia prima, di stagionalità, di filiera corta, di riscoperta delle botteghe e dei produttori locali. Si promuove l’idea che cucinare sia un atto di cura verso se stessi e verso il territorio. Ma allora, perché le nostre scelte quotidiane sembrano smentire tutto questo?
La realtà fuori dallo schermo è spesso l’opposto: carrelli pieni di prodotti industriali, precotti, confezionati e di dubbia provenienza. Botteghe locali sempre più vuote, centri storici desertificati, filiere brevi ignorate.
I millennial — ovvero la fascia 28-43 anni, sempre connessa e ben informata — sono i primi fruitori di questi contenuti. Ma quanti, davvero, mettono in pratica ciò che vedono e ascoltano? Il tempo per cucinare sembra mancare, ma il tempo per scrollare, postare e uscire per l’aperitivo non manca mai.
E allora mi chiedo: non sarà che stiamo solo coltivando l’immagine del mangiar bene, senza viverla davvero?
Per fortuna, la Generazione Z lancia qualche segnale incoraggiante. Sono attenti, molti scelgono regimi vegetariani, parlano di sostenibilità e agiscono di conseguenza. Hanno capito che il mondo non cambierà con un post, ma con una scelta consapevole, ogni giorno.
A noi, come media del settore, spetta un compito preciso: non fermarci alla superficie del trend, ma continuare a raccontare, educare e soprattutto stimolare la coerenza. Perché il vero cambiamento parte dal carrello della spesa.